Diana: bambina morta di stenti, dov’erano tutti?

omicidio diana

Si tratta, lo diciamo da settimane, di un’estate in cui non c’è tregua per le storie che riguardano i bambini.

diana uccisa

Dopo la storia delle piccola Elena, uccisa dalla madre che poi aveva inscenato la sua scomparsa, siamo di fronte ad un nuovo caso agghiacciante, ancora più sconvolgente se si pensa quanto poco poteva bastare per salvare la vita di una bambina, la piccola Diana, morta di stenti e solitudine, a 16 mesi.

Diana: morta di stenti e solitudine

madre assassina

Oggi alla luce dei fatti ormai accaduti, e del ritrovamento del corpo senza vita della bambina, sembra davvero inutile, ancor più che mai, il tentativo di scavare, senza lucidità, tra gli scheletri di una mente e di una donna, che viene buttata in pasto ai commenti dei social, e tra i palloncini bianchi che stanno popolando la casa dove la bambina è morta. Ma io mi chiedo: dove erano tutte le persone che dovevano chiedersi, in 6 giorni e 6 notti, dove fosse questa bambina.
La sorella, a cui la donna aveva detto di aver lasciato la figlia, non si è mai chiesta dove fosse la nipote?
Il compagno di questa donna, che sapeva la bambina fosse al sicuro, non si è mai chiesto perché la donna non abbia mai chiamato la bambina?
I vicini di casa, dove erano, mentre la bambina moriva da sola, di fame, imbottita, probabilmente, di ansiolitici?

Quale era la rete sociale intorno alla piccola Diana?

Non si tratta di giustificare o meno questa madre, evidentemente degna solo di una pena che le impedisca di creare ancora morte e disagio, ma si tratta di chiederci, come mai non siamo in grado di essere “rete” intorno al disagio mentale ed al sistema che ruota intorno ai bambini. Quali sono i metri di misura per dire “è un buon padre” o “è una buona madre” oppure per dire “questa è una situazione di pericolo per una bambina di 16 mesi“. Quando abbiamo smesso di pensare che niente dell’altro riguardi anche noi?
Da quando, è un buon genitore, quel genitore che non fa mancare carezze e attenzione al proprio figlio, sottraendogli invece la serenità di sviluppare la proprio autonomia, per esempio?
Come non riusciamo a capire che è da lì che si instilla il disagio mentale che poi porta una Persona X a pensare che il proprio bisogno di trascorrere 6 giorni dove vuole, non sia compatibile con la necessità di vivere del proprio figlio?

L’allarme dei neuropsichiatri: disagio nella gestione dei minori

Perché se non ce ne siamo accorti, ma ora le pagine della cronaca nera ce lo stanno sbattendo in faccia in modo forte, le famiglie, che dovrebbero crescere gli adulti di domani, sono allo sbando più totale. Incapaci di creare situazioni di socialità sana, per i propri figli. Perennemente, davanti ai social, a postare immagini e frasi, invece che a viverle, tutti pronti a condannare l’ultima vittima di un evidente disturbo mentale a cui non sappiamo mai dare un nome.
Le immagini del funerale della piccola Elena sono state trasmesse senza ritegno da ogni tg, donne con in braccio bambini di 6-7 anni che gridavano “assassina“, io mi chiedo: “cosa hanno spiegato a quei bambini che avevano in braccio mentre gridavano ‘assassina’“. Sono anni che i neuropsichiatri infantili ci chiedono di prestare attenzione al disagio dei bambini e delle famiglie, e noi facciamo spallucce. Come se ci volesse un professionista della salute mentale per capire che quanto è accaduto alla piccola Diana è “solo” l’espansione di quello che ogni giorno accade alla nostra società:

Noi lasciamo continuamente i bambini ad autoconsolarsi con un sedativo e del cibo, mentre ci preoccupiamo di qualcosa più importante, per noi, della loro serenità e del loro reale bisogno.

Bambini davanti agli smartphone al ristorante, in macchina, al parco. Adolescenti confinati all’isolamento sociale, al cyber bullismo. Bambini che non sanno reggere un “no” e che non hanno imparato a contare su di sé, in età in cui sarebbe già normale pensare che lo sia. Perché spesso, e fa troppa paura riconoscerlo e dirlo, siamo noi genitori ad aver bisogno di dire, dimostrare, verificare che i nostri figli dipendono da noi, ed incapaci di lasciarli al mondo, li condanniamo ad una vita che sarà a metà. Saranno uomini che non sapranno accettare un no, donne che svilupperanno dipendenze affettive, future madri che non avranno avuto esempi a cui ispirarsi, uomini che non hanno avuto figure paterne solide e che riproducono esempi di autorità fragili, incapaci di creare caratteri liberi e radicati.
Paolo Crepet e Stefano Vicari sono solo 2 tra i professionisti che da anni ormai lanciano allarmi in questa direzione. Ora quello che noi possiamo fare è: commentare l’ennesimo caso sui social ed invocare la pena di morte, guardarci intorno e vedere quanto disagio c’è in casa nostra, nelle case vicine, nelle nostre famiglie.

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